Negli ultimi dieci anni, il ruolo del direttore creativo ha subito una profonda trasformazione e, se guardiamo alle carriere di John Galliano con Dior, Alber Elbaz con Lanvin o Nicolas Ghesquière per Balenciaga notiamo come oggi il sistema moda si sia molto allontanato dalla figura del direttore ‘icona’.
Le necessità del mercato e dei ‘nuovi consumatori’ sono cambiate e le multinazionali LVMH, Kering e Otd lo hanno percepito. Sostituire la figura dell’‘idolatrato direttore creativo’ con i nuovi talenti del fashion è diventato, a loro avviso, doveroso sostanzialmente per due ragioni: portare una boccata d’aria fresca all’intero sistema ed evitare di riprodurre item ‘prevedibili’ che a lungo andare possano far cadere nella trappola della consuetudine.
Tuttavia, se dovessimo tracciare una sorta di ‘mappa’ tra gli impieghi dei designer alla ‘guida’ delle più importanti maison, scopriremo che un incarico di così grande prestigio e responsabilità non dura molto più di due anni: un tempo davvero troppo breve per sviluppare in modo efficace una nuova immagine del brand.
Un esempio? Clare Waight Keller per Givenchy. La designer ha guidato il brand per tre anni, ma, il suo lavoro, nonostante fosse totalmente in linea con le linee pulite, eleganti e minimali del fondatore Hubert, viene ricordato solo per l’abito da sposa creato per Meghan Markle in occasione del Royal Wedding con il Principe Harry e per gli altri abiti indossati sempre dalla duchessa di Sussex. A sostituire la designer è stata scelta ‘l’altra faccia della creatività’: Matthew M. Williams, che ha portato un’ondata di novità alla maison, in linea con l’immaginario collettivo streetwear della moda attuale.
Il problema, però, è un altro. Come avrete sicuramente osservato, navigare tra le flash news della moda significa essere spettatori di battaglie continue, dove, ogni giorno qualcuno, improvvisamente, abbandona il gioco e scompare e qualcun altro (in pochi per la verità…) sopravvive.
Insomma, il direttore creativo sembra ormai solo un leader ‘a tempo’ destinato a non durare. E, una figura come quella di Alessandro Michele, con Gucci dal 2015, sembra diventata roba da ‘Guinness dei primati’. Il gruppo Kering, che controlla le azioni dell’azienda, non sembra per nulla ‘preoccupato’ per il lavoro di Michele, neanche dopo la frenata che ha avuto Gucci nel 2020 con il calo dei ricavi del 10,3%. Questi dati, infatti, non possono essere considerati allarmanti se paragonati ai successi degli anni precedenti.
Ma prendiamo un altro caso. Del tutto opposto al precedente. Quello della LVMH, la multinazionale e conglomerata francese che possiede i più importanti colossi del fashion system, come Fendi, Celine e Louis Vuitton e che non sembra avere alcuna intenzione di interrompere il “gioco delle sedie”.
Tra le ‘mission’ di una multinazionale, infatti, c’è prevalentemente quella di raggiungere ragguardevoli profitti, mettendo anche a confronto le entrate dei vari brand. Dopo un primo trimestre d’oro, con tanto di crescita del 32%, che faceva ben sperare per le sorti dei due direttori creativi di Kenzo, Felipe Oliveira Baptista e di Berluti, Kris Van Assche, la storia invece ha preso una piega diversa. Entrambi sembravano aver ridato luce ai due marchi, ma evidentemente non abbastanza. La LVMH, guardando il fatturato del primo trimestre del 2021 che ha registrato le performance eccellenti di Louis Vuitton e Christian Dior, ancora in costante crescita, si è resa conto che Kenzo e Berluti non erano comunque riusciti a rientrare tra le ‘big degli incassi’.
Così, LVMH, dopo aver interrotto le due collaborazioni si è trovata davanti a un bivio: nominare o meno un altro direttore creativo. Nel caso di Berluti, la decisione è stata irremovibile. Il brand non prevede un sostituto, preferendo focalizzarsi, invece, su un calendario di presentazioni meno strutturato e su un numero maggiore di collaborazioni. Nel caso di Kenzo, la multinazionale sembrerebbe orientata, invece, alla nomina di Charaf Tajer, fondatore del brand Casablanca. Ma facciamo un passo indietro. Kenzo, dalla scomparsa del suo fondatore è sopravvissuto, unicamente, nel ruolo di “brand premium”e ha mostrato buoni risultati proponendo unicamente capi e accessori brandizzati, come le fatidiche felpe e le t-shirt con le tigri ideate con il duo Humberto Leon e Carol Lim, in carica fino al 2019.
Charaf Tajer, secondo fonti affidabili, confermerebbe la strategia generale di LVMH di scegliere designer con molta visibilità mediatica. D’altronde, il marchio, in pochissimo tempo, si è rivelato una promessa per il fashion system e per Tajer non dovrebbe essere difficile traghettarlo, dall’attuale realtà, alle stelle.
Ma perché puntare su una nuova “pedina” invece di prolungare il contratto con il suo predecessore?
Per rispondere a questa domanda si potrebbe citare il pensiero del consulente Robert Burke su ‘Vogue Business’: “Il cambiamento costante di un designer causa una grande quantità di stress e fatica in un marchio. Meno frequentemente accade, meglio è”. D’altronde, è vero che il rilancio del brand è necessario, ma, con il continuo “gioco delle sedie”, il rischio è quello di generare un meccanismo altalenante che potrebbe provocare grandi perdite finanziarie.
L’anno scorso, la società di analisi Bernstein, dopo aver osservato i movimenti finanziari delle grandi aziende del luxury, ha pubblicato un report in cui mostrava che il periodo massimo per la vita di un direttore creativo è di 5 anni: un tempo necessario a migliorare le performance aziendali. Quindi perché interrompere un contratto in anticipo?
Ancora una volta, la risposta è nel mercato che, soprattutto in un periodo come l’attuale in crisi per la pandemia, non lascia al momento grosse vie di fuga. Le multinazionali, quando non vedono risposte positive da parte dei consumatori alla nuova direzione creativa, pensano che l’unica soluzione sia quella di cambiare. Ma non sempre è la strada giusta.
Altro esempio è quello di Glenn Martens al timone di Diesel. Lo scorso anno, il gruppo Otd di Renzo Rosso ha scelto di riposizionare il brand nel segmento luxury del fashion e per ora la nuova collaborazione sembra andare a gonfie vele. Occhi puntati dunque sulla prima sfilata della storia di Diesel, il 21 giugno a Milano, per vedere come andrà a finire.
L’incarico di un direttore creativo, insomma, appare troppo spesso appeso a un filo e una mossa azzardata, o, al contrario, poco audace può segnare per sempre la sua carriera. Motivo questo che spiegherebbe perché molti designer preferiscono restare nell’ombra. Sarà interessante vedere come potrà cambiare questo ruolo ‘cardine’ nei prossimi dieci anni, ma, soprattutto, se arriverà mai il momento in cui verranno anteposti il genio e la creatività al mero profitto.
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