L’ultima edizione di White conclusa qualche giorno fa, ha fatto tornare segno positivo su molti fronti. Rispetto alla kermesse di giugno e quella di settembre dell’anno scorso infatti, la fiera ha segnato un +31 % per quanto riguarda i buyers (+22% italiani e +40% gli esteri) e un +20% di visitatori. In totale, il numero di persone che hanno partecipato tra acquirenti, stampa e addetti ai lavori, è arrivato a 26.611. – I numeri di questa edizione, anche grazie al timing allungato di quattro giorni, ci danno grande consapevolezza di quello che oggi White rappresenta e anche del potenziale di Milano quando fa squadra -, ha dichiarato Massimilano Bizzi, patron della fiera.
Non si possono contraddire i numeri, ovviamente. Ma percorrendo le vaste dimensioni dell’evento, che quest’anno hanno visto aggiungersi due aree, quella di Tortona 31/Archiproducts e quella inserita nello spazio espositivo all’interno della Camera Italiana Buyer Moda, e incontrando i designer che producono in Italia, soprattutto quelli che sono all’inizio della loro attività creativa e imprenditoriale, fattore quest’ultimo da tenere ben presente, le sensazioni sembrerebbero andare a contraddire questo entusiasmo. In particolare, durante la giornata di lunedì 25 settembre, è stato riscontrato un passaggio dei buyer decisamente minimo, secondo alcuni. Ma è plausibile, dal momento che si trattava dell’ultimo giorno, anzi della mezza giornata dedicata alle sfilate. Tuttavia, questa mancanza si è sentita anche la domenica, giorno solitamente favorevole alle visite dei compratori negli stand della fiera.
Sono punti di vista: l’amministrazione deve giustamente illustrare i risultati positivi che ha portato a casa e i designer, alcuni probabilmente risentiti del fatto di essere relegati in posizioni non troppo comode per i potenziali buyer e forse anche perché si sono resi conto che la loro proposta di prodotto non era in qualche modo all’altezza della concorrenza, spiegano ciò che invece è a loro sfavore. Dunque, dove risiede la ragione? Non è dato saperlo, ma sono necessarie delle soluzioni. E questo per un unico motivo: valorizzare il made in Italy e accrescere ancora di più la joint venture non solo tra White e il Comune di Milano, ma anche con gli stessi imprenditori tessili.
Al di là dei concetti commerciali, delle strategie, della finanza, si potrebbe cercare non tanto di distinguere nelle varie aree (Inside, Basemente, Yellow e tutte le altre) i marchi emergenti da quelli già affermati o che comunque realizzano collezioni più industriali, di pronto moda; ma piuttosto unire tutti i brand che producono davvero in Italia, separandoli dagli altri, e inserendo questi ultimi in altre categorie, magari nazionali o per tipologia di tessuto, magari creando un’area di realtà che utilizzano tessuti solo ecologici. Senza però fare distinzioni riguardanti la loro vita aziendale, l’essere nuovi o meno sul mercato oppure sul costo di ogni prodotto. Si verrebbe così a creare una geografia molto interessante, e soprattutto invoglierebbe i buyers a puntare anche sui nuovi brand anziché solo sui soliti noti.
Puntare a fidelizzare i buyer e la stampa ma anche i designer, i primi veri clienti di White, dovrebbe essere la strategia da seguire da parte di Bizzi e il suo team che, a onore del vero, si sono è sempre battuti per far emergere il lato sperimentare della kermesse e i suoi protagonisti. Verità questa, che nessuno vuole smentire, ma piuttosto consigliare di riformulare, in un’ottica più orientata alla cura dei protagonisti della fiera, piuttosto che alla forma e alla struttura stessa dell’evento.
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