Stretti,larghi, a zampa d’elefante e poi ancora corti, lunghi, versione boyfriend o momfit; i jeans sono quel capo di abbigliamento essenziale per tutti noi, il nostro pane quotidiano che colora i nostri look e li rende speciali.
Ne abbiamo a decine ma continuiamo a comprarli solo per il gusto di lasciarli lì, buttati tra una maglia e una felpa, per poi magari dare un colpo di forbice e farli diventare un paio di comodissimi shorts.
Stanno bene a tutti e tutti ci divertiamo ad indossarli ma non devono assolutamente implicare un consenso per un rapporto sessuale.
Questo è quello che è successo negli anni ’90 ad una ragazza di diciotto anni, stava imparando a guidare con il suo istruttore; indossava un paio di jeans skinny; probabilmente i primi in commercio all’epoca. Magari era imbranata come lo ero io, magari il giorno dopo aveva la versione di Greco o il compito di letteratura inglese o addirittura pensava alla sua prima cotta.
Tempo pochi secondi e la sua vita è cambiata per sempre: da quel maledetto giorno in poi ha dovuto affrontare udienze, tribunali, paura di non essere creduta, di non riconoscere il proprio corpo guardandosi allo specchio o peggio ancora si è sentita sbagliata, colpevole solo perché la Corte di Cassazione ha ritenuto che in quel caso non si trattasse di stupro perché infondo chi indossa jeans skinny non può permettersi di dire NO; anzi quasi sicuramente era anche consenziente anche se la proposizione affermativa non è uscita dalla sua bocca; ma da i suoi jeans si, secondo la legge.
Questo caso emblematico è riuscito a connettere il mondo del fashion con quello della giustizia sociale: è nato il Denim Day, una giornata di Aprile interamente dedicata alle vittime di abusi, stupri e violenze con l’obiettivo di lanciare un messaggio che nella nostra epoca, nonostante tutte le battaglie, non è ancora chiaro.
Uomini e donne, ragazzi e ragazze in questo giorno sono invitati ad indossare il loro paio di jeans preferito, con il quale si sentono a proprio agio e sfilare per le vie del centro della città di appartenenza.
Con l’avvento del Covid-19 ciò non è stato possibile; così sul social più inutile al mondo è nata una delle challenge più fighe e al contempo più emozionanti che io abbia mai visto: su Tik Tok ragazze ma anche ragazzi di sesso maschile hanno indossato gli abiti con i quali sono usciti il giorno che hanno subìto un abuso, una presa in giro o semplicemente hanno ricevuto la così detta “pacca” da chi si sentiva autorizzato a farlo solo perché potente, solo perché “grande” o “bello”.
Altre ragazze hanno mostrato a testa alta i jeans stracciati, macchiati; il simbolo dell’aggressione avvenuta, eppurecome è giusto che sia non hanno provato. Sono fiere e hanno gli occhi luminosi ma soprattutto vogliono dire a te che sei dietro lo schermo che vali molto di più di come ti hanno disumanamente trattato.
Forse questa sarà l’ennesima challenge o l’ennesima lotta che lascia un po’ il tempo che trova o forse no, può essere una modalità più creativa e leggera per aiutare chi è o è stato/a vittima a parlare, a denunciare.
Può far capire in maniera più forte e diretta che non è la gonna, non sono gli shorts ne tantomeno gli skinny a far cadere in tentazione; non sei tu, il tuo modo di truccarti, di camminare, se un essere (umano) vuole fare il bastardo lo fa, senza giustificazioni o attenuanti.
La questione più importante che necessariamente deve essere compresa è che nessuno è escluso; a qualunque genere tu appartenga è necessario che usi la tua voce e i tuoi jeans!
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